In tale contesto si è sempre innestato il cosiddetto mobbing, inteso come condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, che, attraverso reiterati comportamenti ostili, realizza forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico-fisico e del complesso della sua personalità (cfr. Cass. 12437/2018 e Cass. 26684/2017). Recentemente, però, si è parlato altresì di una forma più attenuata di tale tipologia di condotta, ossia lo straining. In particolare, mentre il mobbing ha una struttura riconducibile a quella del reato abituale (con la presenza di un elemento oggettivo, la reiterazione nel tempo delle condotte, ed uno soggettivo individuato nell’intento persecutorio), lo straining si differenzia per la non necessità del carattere della continuità delle azioni vessatorie (bastano dunque poche condotte isolate). Si tratta, pertanto, di una forma attenuata di persecuzione, a metà strada tra il mobbing e il semplice stress occupazionale, configurandosi nel caso in cui vi siano condotte comunque illecite, seppur magari saltuarie, che producono però effetti dannosi permanenti nel tempo, consapevolmente attuati nei confronti di un soggetto (cfr. Cass. 15159/2019; Cass. 18164/2018). Peraltro, per completezza di trattazione, si segnalano recenti pronunce che assumono l’esistenza di straining anche in assenza dell’elemento soggettivo (oltre che della reiterazione) e quindi dell’intento persecutorio (cfr. Cass. 24883/2019).

Quanto alla riconoscibilità di alcuni comportamenti “tipici” dello straining, si rileva che anche un’unica azione ostile o più azioni prive di continuità potrebbero essere sufficienti purché provochino delle conseguenze durature e costanti a livello lavorativo tali per cui la vittima abbia percepito di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori: l’elemento dunque ponderante non è più il numero di condotte illecite o la reiterazione delle stesse bensì l’incidenza sulla salute del dipendente di tali comportamenti.

Relativamente, infine, ai profili processuali della fattispecie, si è dibattuto in un primo momento intorno alla possibilità che si verifichi una violazione dell’art. 112 c.p.c. in materia di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, nel caso in cui il giudice qualifichi come straining la condotta vessatoria denunciata dal lavoratore come mobbing. Diverse pronunce, però, sul punto hanno chiarito che non può ipotizzarsi alcuna violazione del principio della domanda per il fatto che, mentre il lavoratore nell’atto introduttivo del giudizio ha fatto riferimento al mobbing, il giudice ritenga di qualificare la fattispecie come straining. Infatti, si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale per identificare comportamenti puntualmente allegati e provati nel giudizio e per nulla estranei all’oggetto della controversia.