La norma sopra richiamata ha da sempre posto in essere una presunzione di legge volta ad individuare specificatamente la natura del rapporto di lavoro intercorrente tra atleta e società sportiva professionistica: in particolare, in base a tale indicazione, la prestazione dell’atleta professionista costituisce tout court oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle norme della medesima L. 91/1981. Con la riforma del diritto dello sport (non ancora attuata nel suo complesso), però, non è dato sapere l’incidenza pratica delle nuove determinazioni in ambito di subordinazione ed autonomia della prestazione sportiva (pensiamo ad esempio alla nuova figura e definizione di “lavoratore sportivo”). Certi, però, sono i limiti che a tale dicotomia vennero già infusi dalla legge originaria in materia, in particolare attraverso la previsione di tre ipotesi di lavoro sportivo professionistico autonomo, svincolate dalla subordinazione e determinate in funzione delle modalità di esecuzione della prestazione.
La prestazione dell’atleta professionista, infatti, deve essere sempre considerata come di lavoro autonomo nel caso in cui: (i) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo, (ii) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento, (iii) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno. Quanto alla prima ipotesi, non sussistono particolari difficoltà interpretative: difatti, la partecipazione ad una singola manifestazione o a più manifestazioni concentrate in un breve lasso di tempo non presenta i requisiti dell’inserimento stabile nella struttura aziendale o dell’etero-direzione dell’attività che, secondo giurisprudenza e dottrina, costituisce il discrimen nella qualificazione di un rapporto di lavoro subordinato. In effetti, anche in mancanza di un’espressa previsione normativa, l’impegno assunto in tali casi non avrebbe concretamente reso possibile una connotazione subordinata del rapporto di lavoro. L’assenza, poi, di vincoli contrattuali relativi all’obbligatoria partecipazione a sedute di allenamento e preparazione, seconda ipotesi esaminata, risulta di fatto essere la fattispecie più conferente al lavoro autonomo: in questa eventualità, a determinare le modalità di svolgimento dell’attività sportiva sarebbe l’atleta stesso, il quale gestirebbe le tempistiche, sceglierebbe le attività di allenamento e la preparazione atletica da svolgere, avendo paradossalmente la facoltà di omettere ogni eventuale controllo e verifica in merito allo stato della propria preparazione fisica e atletica. Quanto infine al terzo punto, è stato evidenziato come il legislatore abbia voluto aprioristicamente escludere l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato a quei rapporti che si caratterizzano per una breve durata della prestazione, negando valore giuridico al requisito della continuità che, seppur imperfetta, li caratterizzerebbe. In conclusione, sembrerebbe dunque che l’elemento che accomuna le tre ipotesi di autonomia del rapporto di lavoro dell’atleta previste dalla L. 91/1981 sia rinvenibile nell’occasionalità della prestazione derivante dalla breve, se non brevissima, durata dell’attività.