Con l’ordinanza n. 5129/2020 la Corte di Cassazione ha ribadito un principio oramai consolidato in materia di cessione del credito. Nello specifico la Suprema Corte ha stabilito che “per quanto concerne le norme sulla cessione, rilevano tre regole fondamentali. La prima deriva dall’art. 1260 c.c., comma 1, che pone come principio generale, fatti salvi determinati limiti della legge speciale qui ininfluenti, quello della libera cedibilità dei crediti; si tratta di un principio idoneo ad ingenerare nel cessionario l’affidamento di normale cedibilità del credito e, pertanto, di legittimità e regolarità della cessione operata a suo favore. La seconda è desumibile dall’art. 1372 c.c., comma 1, in base al quale il contratto non produce effetto rispetto ai terzi, se non nei casi previsti dalla legge; ed è del tutto normale che il cessionario sia estraneo all’accordo di non cedibilità intercorso – per un interesse che è soltanto di costoro – tra cedente e ceduto. La terza deriva dall’art. 1260 c.c., comma 2, secondo cui solo eccezionalmente il divieto di cessione può essere opposto al cessionario, allorquando si provi (ad onere del cedente o del ceduto) che questi ne era a conoscenza”.

In forza dell’orientamento sopra richiamato, quindi, nell’ipotesi di incedibilità convenzionale del credito, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1260, comma 1 e 2, c.c., il pactum de non cedendo potrà essere opposto al cessionario solamente se il debitore offra la prova che il cessionario medesimo ne era a conoscenza al momento della cessione.

In particolare, in ipotesi di cessione dei crediti di massa, nel rispetto dei principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha affermato che ragioni testuali (art. 1260, comma 2, c.c.: “se non si prova che egli lo conosceva”), finalistiche (certezza della circolazione dei crediti) e logico-sistematiche (contenimento degli effetti del contratto a chi non ne sia stato parte) inducono ad una interpretazione restrittiva del secondo comma dell’art. 1260 c.c., così da ritenere necessario che la prova verta non già sulla mera conoscibilità dei divieto in capo al cessionario, ma sulla sua effettiva conoscenza al tempo della cessione. Da ciò deriva che, nel caso di Due Diligence a campione, la presenza della clausola che preveda il patto di incedibilità all’interno di documenti contrattuali, seppure non conosciuta ma conoscibile dal cessionario, non comporterebbe di per sé conseguenze pregiudizievoli nei confronti di quest’ultimo, atteso che il pactum de non cedendo sarebbe opponibile allo stesso solo laddove il cessionario avesse accettato consapevolmente di acquistare un credito convenzionalmente non trasferibile (in merito a ciò, cfr. Cass. n. 825/2015). Dunque, in caso di contestazione da parte del debitore ceduto, in assenza di tale prova incontrovertibile, il cessionario potrà sempre far valere nelle proprie difese in giudizio l’inopponibilità del predetto divieto.

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