Ai lavoratori impiegati in appalto, come viene espressamente previsto dal nuovo decreto, deve essere “[..] corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”. I profili di questa nuova normativa, che ad una prima lettura appaiono quanto mai sintetici, sono però diversi e problematici, il primo tra tutti il riferimento al “trattamento economico complessivo”: non è, infatti, scontato individuare all’interno di un qualsiasi contratto i confini delle erogazioni riconducibili a tale trattamento. Il decreto, sul punto, impiega un criterio non consueto per individuare il contratto da cui trarre il trattamento da applicare ai lavoratori impegnati nell’esecuzione dell’appalto: viene fatto riferimento al contratto collettivo maggiormente applicato, ma chi può individuare il contratto collettivo applicato più degli altri, peraltro non solo nel “settore” ma anche nella “zona”? Ci si dovrà avvalere delle informazioni raccolte dall’Inps tramite la denuncia obbligatoria ma probabilmente non saranno sufficienti per fugare ogni dubbio. Il concetto di zona rimarrebbe vago così come l’applicazione stessa del contratto, poiché il “trattamento economico complessivo”, tratto dal contratto collettivo più applicato, viene previsto come un trattamento minimo, che non dà affatto luogo ad un tetto massimo non modificabile in melius a favore dei lavoratori. In tal senso, allora, un datore di lavoro (sia esso un appaltatore o subappaltatore) che in ipotesi adopera un contratto collettivo (diverso da quello maggiormente applicato) potrebbe continuare ad applicarlo integralmente se più favorevole ai lavoratori per la parte economica; diversamente, se la parte economica del contratto fosse meno favorevole, allora il datore di lavoro dovrebbe applicare il trattamento economico di cui al contratto maggiormente applicato e per il resto quanto previsto dall’altro contratto. Le complicazioni, pertanto, sono evidenti e molteplici.
Ancora oggi, infine, per previsione della L. 389/1989, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo. Di riflesso, dunque, se il contratto maggiormente applicato prevede un retribuzione imponibile inferiore a quella di cui al contratto stipulato dalle associazioni maggiormente rappresentative, comunque il datore dovrà calcolare e versare la contribuzione sulla base dell’imponibile ricavabile dal secondo contratto.
Per tali ragioni, pertanto, è da ipotizzare che la nuova normativa, all’atto pratico, possa determinare un’ulteriore moltiplicazione dei contratti collettivi. Dunque, spinte e controspinte ad applicare ora l’uno, ora l’altro contratto collettivo, con il rischio di ingenerare enorme confusione fra gli addetti ai lavori